Oggi ti presento «L’incredulità di San Tommaso del Caravaggio». Si tratta di un’opera importante per comprendere la concezione dell’arte del Merisi, ben rispecchiato nella personalità travagliata e in ricerca dell’apostolo Tommaso. Luci e ombre coabitano insieme all’interno della stessa tela: questa è la vita di Caravaggio, non diversa dalla nostra.
Al chiaroscuro e ai contrasti di colore è affidato il ruolo di indagare e modellare ogni cosa – gesti, movimenti, fisionomie, atteggiamenti – sottolineando la drammaticità della scena. Caravaggio non usa disegni preparatori, dipinge dal vero, prendendo a modello persone scelte tra il popolo, la stessa natura è fonte privilegiata di esperienza e ispirazione. Sovverte l’iconografia tradizionale: non c’è idealizzazione delle figure sacre ma visione realistica e drammatica. L’attenzione ai particolari, tipica della pittura di genere, è superata per concentrarsi sul messaggio evangelico, senza elementi retorici e ornamentali.
Il Vangelo di Giovanni informa che Tommaso non era presente quando Gesù apparve agli apostoli, e al racconto di questi ultimi, che sicuri asseriscono: «abbiamo visto il Signore», egli pone avanti i suoi dubbi e afferma, «se non metto il dito al posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò». È un razionalista, non si fida nemmeno di ciò che eventualmente potrebbe vedere e pretende di toccare.
«Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù a porte chiuse e si fermò in mezzo a loro». Ecco la scena rappresentata da Caravaggio. Tommaso l’incredulo ha di fronte a sé Gesù in persona: «Metti qui il dito, stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente». Caravaggio coglie il momento della constatazione con quattro figure su uno sfondo scuro: la luce concentra l’attenzione sulla fronte corrucciata di Tommaso e sul profilo ed il costato di Cristo, abbagliante di luce, già trasfigurato dalla risurrezione. L’inquadratura permette anche di fissare l’attenzione sull’espressione timorosa e dubbiosa di Tommaso con la testa in basso, confortato da Cristo il cui capo è in posizione più alta.
La disposizione ravvicinata delle quattro teste disegna una croce e gli sguardi creano un triangolo che ha il suo vertice nel gesto di Tommaso, espediente che focalizza l’attenzione ancora più intensamente sul fulcro della scena: la presenza reale in carne ed ossa di Gesù, invito del pittore a sperimentare la presenza di Dio nella concretezza della storia, con le sue contraddizioni e fatiche.
Tommaso pone il dito nella ferita del costato di Gesù. Altri due apostoli – uno dei quali è Pietro – osservano incuriositi, in posizione più alta e in un mirabile incastro di forme umane. La mano di Gesù accompagna benevola quella dell’apostolo. Tutto è esaltato dalla luce che proviene da sinistra: è la luce di Dio che si fa incontro all’uomo, alle sue esigenze di senso e illumina il suo dubbio. Guarda le fronti corrucciate degli apostoli! Peraltro, il dipinto era un “sopraporta”, quindi gli spettatori lo vedevano dal basso, partecipando emotivamente della scoperta di Tommaso.
Gesù sposta il mantello e abbassando la testa introduce il dito tremante di Tommaso nel costato, ferito dalla lancia del soldato; dalla stessa ferita, l’evangelista Giovanni aveva visto fuoriuscire sangue e acqua, simboli della vita data per amore e salvezza dell’uomo. Il volto di Gesù ha una impercettibile smorfia di dolore: la vita dell’apostolo, la vita di ogni uomo, la nostra vita gli sta a cuore fino al punto di accettare il sacrificio per la loro felicità. In questo dipinto non c’è altro, tutto è avvolto dalla penombra.
L’atteggiamento di Tommaso, scettico e che pone condizioni, è simile al nostro. Caravaggio dipinge questo turbamento in Tommaso e in modo sapiente lo traspone anche in quello degli altri due apo- stoli: sembra che lo scopo del dipinto non sia semplice narrazione dei fatti, quanto piuttosto porci di fronte al mistero della risurrezione nella sua evidente corporeità.
Gli apostoli sembrano dei reietti, incredibilmente umani: scompigliati, la barba incolta, vestiti sdruciti, in primo piano è evidente persino uno strappo; hanno il volto ossuto, rugoso, di gente
dedita al lavoro e alla fatica. Anche la mano di Tommaso non è certamente quella di un uomo raffinato: affonda nella carne di Gesù, con le unghie sporche del lavoro quotidiano. Ci saremmo aspettati un invito a lavarsi prima le mani e poi metterla nel costato. Invece no: Gesù non teme la nostra indegnità, ci accoglie, così come siamo con le nostre contraddizioni e ferite che portiamo profonde nel cuore. Quella di Tommaso è la mano sporca di tutti coloro che sono chiamati a fidarsi di Gesù nonostante il loro peccato. Con una fisicità stupefacente, Tommaso pone il dito così profondamente nella ferita del costato che Gesù sembra quasi voglia trattenergli la mano da un ulteriore affondo che potrebbe rivelarsi doloroso: la verità va cercata, indagata, approfondita. Ecco quel dito che sembra voler scavare nella carne di Gesù.
Lo scetticismo si scioglie nello stupore: gli occhi si spalancano dinanzi a quelle ferite e la bocca, tremante, si apre balbettando, con un filo di voce: «Mio Signore e mio Dio!».
Nel viaggio esistenziale di ogni giorno possiamo invitare Tommaso come compagno: anche noi come lui stentiamo a cadere subito in ginocchio, non ci fidiamo, resistiamo, tormentati dai dubbi e dalla fatica. Proprio attraverso questo tormentato itinerario Tommaso, atteso e stimolato dalla pazienza amorosa di Dio, alla fine scopre il giusto atteggiamento e trova le parole più semplici per dire la cosa più grande: «Mio Signore e mio Dio».
È arrivato ultimo, rispetto agli altri apostoli, ma alla fine è comunque arrivato: Gesù accoglie i ritardatari, anzi per loro è pronto a concedere qualche straordinario che non era stato necessario per gli altri; accoglie gli ultimi, coloro che dubitano e che barcollano nelle loro difficoltà e incertezze e avanzano in mezzo alle tenebre. E’ abituato a concedersi all’ultimo arrivato: il ladrone, sulla croce, né è una prova tangibile.
Prima di credere come ha fatto Tommaso occorre aver sofferto per non aver potuto credere: più che a colui che si ritiene giusto, Gesù si concede a colui che riconosce i suoi sbagli senza l’assurda pretesa di volerli giustificare. Tommaso si è avvicinato a Gesù senza paura, a mani vuote, recando però nel cuore la scottatura di molte delusioni. Gesù ha detto a Tommaso e continua a dire anche a noi: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno». Chiede solo di riuscire a non vedere, almeno per un po’. Avremo tutta l’eternità a disposizione per vedere e contemplare il suo amore, ma ora ì chiede il regalo più grande: fiducia. Non importa se imperfetta o ritardataria, è sufficiente che permetta di vedere oltre, di vedere l’invisibile: alla fine, Tommaso si arrende non tanto perché ha toccato ma perché si è lasciato toccare e avvolgere dalla presenza di Gesù risorto.